Su ballu e s’arza, un antico rituale sardo di guarigione
Su ballu ‘e s’arza, un antico rituale sardo per guarire dal morso della letale e temuta argia, scientificamente conosciuta come Latrodectus tredecimguttatus, e meglio nota con il nome di malmignatta, vedova nera mediterranea e in Sardegna Argia o Arza.
Un rituale di guarigione quindi, legato anche ad alcune credenze popolari, che consideravano la persona vittima del morso dell’argia, come persona posseduta da spiriti maligni o anime dannate, che si credeva risiedessero nel corpo dell’aracnide. Per questo i riti di guarigione legati al morso o puntura dell’argia, erano considerati dei veri e propri riti esorcistici, paragonabili a quelli del tarantismo pugliese.
Vittime dell’argia erano più spesso i contadini in particolare gli uomini, essendo più presenti nei campi rispetto alle donne. Gli attacchi di questo ragno, di natura molto schivo, si verificavano infatti maggiormente durante i periodi di raccolto, proprio perché era solito annidarsi tra le sterpaglie nelle campagne, che diventavano in quel periodo uno dei luoghi dove poteva essere maggiormente minacciato.
Chi veniva morso era definito argiato, o per dirlo alla sarda colto da su mal’ ’e s’argia. I sintomi fisici erano solitamente malessere generico e diffuso, perdita di coscienza, nausea, vomito, febbre molto alta, tremori, forti dolori addominali, e spasmi simili agli attacchi epilettici. Altri sintomi si rilevavano anche a livello mentale, ed erano caratterizzati da allucinazioni, depressione e stati psichici di vario genere. Questi sintomi erano provocati dal potente veleno iniettato dall’argia, che in alcuni rari casi poteva risultare mortale.
Spesso, se a pungere era un’argia femmina, non ci si rendeva subito conto, perché il suo morso non provocava dolore immediato, al contrario il morso di un’argia maschio, detta nel nuorese s’argia masciu, risultava dolorosissimo.
I sardi dividevano l’argia in diverse tipologie, che distinguevano in base al colore del ragno. L’argia vedova (in sardo argia viuda) di colore nero, l’argia nubile (in sardo argia bagadia) di colore bianco, e quella più diffusa e conosciuta di colore nero con la presenza di macchie rosse, che era associata alle spose.
Altre categorie riconosciute ma meno diffuse erano, l’argia bambina, che si scacciava intonando cantilene e nenie, l’argia puerpera che si scacciava simulando un parto, e l’argia anziana associata al focolare domestico che prevedeva un rito ben preciso in cui era previsto l’utilizzo del fuoco.
In base alla tipologia di argia da cui si era stati punti, si praticavano le diverse varianti del rito di guarigione. Per questo motivo era assolutamente necessario individuare le caratteristiche dell’argia colpevole, e per farlo si provvedeva a interrogare la vittima.
Questo incarico era solitamente affidato a una persona vicina alla vittima, o a qualcuno in grado di comunicare con l’argia che possedeva il malcapitato. Uno dei mezzi per smascherare l’argia era l’utilizzo dei brebus, le parole magiche e segrete custodite dalle maiargias (guaritrici sarde), ne esistevano diversi che variavano in base alle zone dell’isola.
COME SI SVOLGEVA IL RITO DE SU BALLU E S’ARZA
Su ballu e s’arza è un antichissimo rito ancestrale di origine prenuragica, legato ad altrettanto antichi culti pagani, oggi a testimonianza resta la tradizione scritta e orale, tramandata fino ai giorni nostri.
Come già detto, in base alle caratteristiche del ragno e alla località dell’isola, si praticavano diversi riti, tutti conservavano la stessa finalità, ma variavano per alcune particolarità nello svolgimento.
Quello più conosciuto e praticato, consistenza nella danza di 21 donne, che si dividevano in 3 gruppi di diverso stato sociale. Al ballo dovevano partecipare 7 donne nubili, 7 donne sposate e 7 donne vedove, che cantavano e danzavano in cerchio attorno al malato. Le donne potevano insultare, umiliare o cercare di fare rider il malato, per provocare una qualsiasi reazione. Se si riusciva nell’intento di farlo ridere o sorridere, la vittima si poteva ritenere guarita, nel caso in cui non scaturiva nessuna reazione, la danza poteva protrarsi anche per giorni.
Prima che iniziasse il rito, il malato veniva avvolto con un grande sacco e adagiato in una fossa precedentemente scavata, che fosse abbastanza grande per contenere il corpo in tutta la sua lunghezza. Successivamente veniva ricoperto di letame dal collo ai piedi, lasciando fuori solo la testa, una volta fatto questo potevano iniziare le danze.
Gli uomini partecipavano ai vari riti, ma con un ruolo marginale quasi da spettatori, solitamente come aiutanti o accompagnando le donne nel canto.
Un altro rito prevedeva la presenza di 3 donne solamente, tutte di diverso stato sociale come nel caso precedente, ma con la particolarità che avessero tutte lo stesso nome, tutte dovevano chiamarsi Maria.
Un’altra tipologia di rituale, prevedeva che le donne ballassero intorno al malato in silenzio, percuotendo dei campanacci che emettevano un forte rumore, questo avrebbe dovuto scacciare gli spiriti maligni.
Ancora, un altro rito molto particolare, consisteva nell’introdurre il malato all’interno di un forno (il classico forno sardo a legna) precedentemente riscaldato, per almeno 10 minuti, e una volta estratto avvolto in delle coperte in attesa della guarigione completa.
Sempre con l’ausilio del fuoco (elemento purificatore per eccellenza) si praticava anche un altro rito, in cui il malato veniva fatto sedere in uno spazio esterno, accanto a un fuoco acceso su una croce creata con dei giovani rami di vite (detti tralci) mentre i presenti gli danzavano attorno tenendo in mano dei tralci di vite accesi. Al termine del rito il malato veniva allontanato dal fuoco e coperto con panni o coperte calde, in attesa della guarigione.
Una volta rinsavita, la vittima solitamente non ricordava nulla di quanto accaduto, ricominciando a condurre una vita normale.
Oggi, con l’avvento della medicina moderna, queste antiche pratiche sono andate via via con gli anni verso una quasi totale scomparsa. Ne resta traccia grazie alla saggezza tramandata dagli anziani che ancora raccontano le vicende del passato alle nuove generazioni, e grazie alla tradizione tenuta in vita ancora in alcune zone dell’isola.
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