Nato per sfamare i pastori sardi in periodo di transumanza, oggi esportato ovunque
Pane Carasau, le origini
Conosciuto anche come pane carasatu, pane carasadu, pane fine, pane ‘e fresa o pane fatu in fresa, il Carasau è uno dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani (PAT), di origine puramente sarda, nato per sfamare i pastori, oggi esportato nel mondo.
La sua importanza nel passato
Il pane carasau è un prodotto nutriente, infatti l’apporto energetico del pane è importante, per via dell’alta concentrazione di carboidrati e la lunga capacità conservativa lo rendeva ideale per essere consumato dai pastori sardi durante i lunghi periodi di transumanza.
Così, le donne di famiglia lo preparavano per i mariti che, grazie alla sua particolare forma e consistenza, lo usavano come piatto, mangiandolo gradualmente insieme agli altri ingredienti, solitamente formaggi. In alternativa, poteva essere ammorbidito nell’acqua o nel brodo e accompagnato da un pezzo di carne.
“Sa Cotta”, il rito familiare e di vicinato
“Sa Cotta”, è il nome in lingua sarda con il quale viene indicato l’intero ciclo di preparazione e cottura del pane.
Sino a qualche decennio fa era un vero e proprio rito familiare e di vicinato che coinvolgeva almeno tre donne, amiche o parenti che ricevevano in cambio cibo o semplicemente si ricambiavano il favore.
Le 8 fasi:
1) “S’inthurta”
S’inthurta è la prima fase della lavorazione e avviene prima del sorgere del sole.
Il lievito già precedentemente sciolto in acqua tiepida viene mescolato alla farina passata al setaccio (sedattu) e impastata dentro una madia di legno chiamata nelle diverse varianti del sardo iscivu, lacu, lachedda, oppure dentro una conca di terracotta (tianu, impastera). Esistono molte varianti sulla preparazione dell’impasto, sulla sua lavorazione e sulla cottura del pane, varianti che determinano sfumature di sapore, di leggerezza della sfoglia, di dimensione della stessa, e che seguono antiche tradizioni familiari o paesane .
2) “Cariare” o “hariare”
Durante questa seconda fase l’impasto viene lavorato energicamente sul tavolo, nel passato non ancora lontano anche in ginocchio sulla madia stessa.
La pasta fresca viene schiacciata, allargata con la pressione dei pugni e riavvolta su sé stessa, con l’aggiunta di acqua viene manipolata con forza (ammoddigare) fino a ottenere un impasto liscio.
Da questa fase dipende molto la riuscita del pane e la sua durata è diversa per le tante varietà.
Per il carasau è necessario continuare a lungo, più la pasta è ben lavorata, più il risultato sarà apprezzabile. Questa fase è molto faticosa.
3) Pesare
La fase della lievitazione viene chiamata pesare (alzare).
La pasta ben lavorata viene posta in speciali contenitori come conche di terracotta o come in Barbagia dentro il malune di sughero, ben ricoperta con teli di lana.
4) Orire, sestare
Una volta iniziata la lievitazione, si divide l’insieme dell’impasto in tòcchi regolari (sestare, orire), che vengono arrotondati, infarinati e riposti in particolari canestri (còrvulas, canisteddas), avvolti tra le pieghe di teli di lana o di lino per farli riposare (pasare) ancora, in modo che la lievitazione possa procedere tranquillamente.
5) Illadare
Durante questa fase la pasta lievitata si lavora con dei piccoli mattarelli in legno (canneddos, cannones) e mediante i polpastrelli, infarinandola continuamente, appiattendola e allargandola a formare dei dischi (sas tundas) dal diametro variabile a seconda della località della Sardegna.
Ottenuto il diametro e lo spessore desiderato, si depositano sulle pieghe di speciali panni di lana chiamati pannos de ispica o tiazas.
Questi sono dei panni particolari, lunghi anche 10 metri e larghi 50 cm.
Vengono tenuti solitamente arrotolati, ma nel momento del loro utilizzo si srotolano progressivamente prima verso destra per un tratto di 50 cm, e verso sinistra una volta depositata la sfoglia discoidale (sa tunda), a coprirla completamente, permettendo in questo modo di depositarne un’altra sulla parte superiore della piega, e così via in un susseguirsi di piegature fino al completo srotolamento.
Vengono poi messi da parte e coperti con delle coperte. Ogni pannu de ispica o tiaza, a seconda della sua lunghezza, può contenere fino a venti tundas che sono in questo modo facilmente trasportabili.
6) Cochere
Arriviamo al forno, si utilizza solitamente legno di quercia o di olivastro.
Una volta introdotto viene sistemato nel centro del forno. Dopo l’accensione del fuoco, che avviene solitamente mentre si preparano le sottili e discoidali sfoglie di pasta, il forno inizia a scaldarsi e a raggiungere una temperatura stabile tra 450 e 500 °C.
La fase della cottura dei pani avviene dopo che le braci sono state spinte da una parte tramite una particolare paletta in ferro (palitta ‘e furru) e la pavimentazione del forno spazzata con una scopa speciale (iscovulos, ishopiles).
Quando il forno è abbastanza caldo, incomincia la fase della prima cottura.
Da una tiaza viene prelevata una tunda e tramite una pala in legno dalla forma arrotondata per meglio contenerla chiamata pala ‘e linna o pala lada, introdotta nel forno per la prima cottura.
Il forte calore rigonfia la foglia in poco tempo formando una palla. L’aria al suo interno incomincia a espandersi, determinando la separazione dei due strati.
A seconda delle tradizioni locali la si rivolta o meno, e vi si appoggia delicatamente la pala in legno per favorire l’omogeneità del rigonfiamento spingendo il vapore verso quelle parti non ancora staccate.
Non sempre il rigonfiamento è uniforme.
7) Fresare o calpire
Una volta sfornato il disco di pasta, le due facce ormai distaccate vengono separate (carpire, calpire o fresare) con il coltello, velocemente, possibilmente prima che l’aria defluisca da qualche fessura o che si riduca troppo di volume e la sfoglia si afflosci per il raffreddamento .
Questa operazione richiede maestria e chi se ne occupa (sa fresadora) deve fare attenzione perché la sfoglia è molto calda e sprigiona vapore.
Inoltre può capitare che le due parti si riattacchino impedendo una corretta separazione.
Non sempre l’operazione riesce specialmente se il forno non ha raggiunto la giusta temperatura o non riesce a mantenerla, o se la lievitazione non è abbastanza.
I dischi che rappresentano il prodotto finale hanno una faccia liscia (quella che era all’esterno della focaccia) e una ruvida (il lato interno della focaccia originale).
Il pane ottenuto dalla prima cottura e separato in due sottili strati viene chiamato pane lentu, pane modde o pane cruhu, e ha la caratteristica di essere abbastanza elastico da non spezzarsi facilmente, inoltre può essere piegato o arrotolato a piacimento, caratteristica che riacquisterà dopo la carasatura solo con immersione in acqua.
Può essere consumato anche subito e il sapore è altrettanto apprezzabile, ma a differenza del carasau non si presta a una lunga conservazione.
Se il pane deve essere trasportato, grazie alla sua elasticità, in questa fase la sfoglia può essere piegata in due a formare una mezzaluna, o ripiegata ulteriormente di un quarto per adattarla ai contenitori, e rimessa in forno con questa nuova forma per la tostatura.
Dopo la separazione, sos pizos vengono impilati dentro dei cesti e solamente quando tutte le tundas saranno cotte si passa alla fase successiva.
8) Carasare
Con l’ultimazione della prima cottura, di solito nel primo pomeriggio dopo la sosta del pranzo, si procede alla seconda infornata necessaria a completare l’intero processo.
Sos pizos uno per uno vengono rimessi dentro il forno per la cottura finale (sa carasadura). a seconda dei gusti, le sfoglie vengono lasciate nel forno per un tempo più o meno lungo.
Man mano che le sfoglie escono dal forno, vengono impilate (piras de pane) in grossi cesti di asfodelo (isportas).
Per la sua particolare croccantezza, che ne rende rumorosa la masticazione, fuori dalla Sardegna veniva chiamata “carta da musica”, oggi invece, grazie anche alla massiccia produzione e esportazione, il vocabolo “carasau” è di uso comune anche fuori dall’isola, infatti dal 2017 è presente nel dizionario italiano Zingarelli.
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